venerdì 3 agosto 2012


JOE ELY – LETTER TO LAREDO

Quando nel 1996 uscì, in poche coraggiose sale, il film di  Paul Auster e Wayne Wang “Blue in the face”, sorta di progetto parallelo di “Smoke”, il titolo (che si riferisce al fatto che nel film gli attori, tra i quali anche Madonna e Lou Reed, parlano incessantemente fino a diventare, per l’appunto, cianotici) mi fece immediatamente pensare alla frase “Sang ‘til my lips turned blue” contenuta in  “All just to get to you”, la canzone che apriva lo splendido “Letter to Laredo” di Joe Ely, uscito appena pochi mesi prima.
Ma i testi delle canzoni di Joe Ely, si sa, raramente sono dei fiumi di parole in piena e no, non ci sono labbra blu o visi cianotici ad accompagnare idealmente queste border songs alla loro conclusione. Se proprio vogliamo trovare in Letter To Laredo qualcosa di blu dobbiamo cercare nei polpastrelli di Teye, oscuro chitarrista flamenco olandese. Blu perché tale doveva essere il colore dei succitati polpastrelli dopo le dimostrazioni di virtuosismo che possiamo ascoltare nel disco, e blu perché blu è il colore della malinconia, che del flamenco è principale nutrimento.
Se le direttrici musicali dei precedenti lavori di Ely si collocavano nell’ambito di un country rock piuttosto canonico, sebbene lontano mille miglia dai suoni modaioli di Nashville, Letter To Laredo ne sposta l’ideale collocazione in quella linea di confine che separa il Texas dal Messico.
Ad accompagnare Joe in questo affascinante viaggio musicale troviamo, insieme ad un manipolo di ottimi musicisti (molti dei quali accompagnano il cantante da tempo), anche un paio di vecchi amici dello stesso: Bruce Springsteen, che presterà la propria voce per il brano iniziale (la muscolosa “All Just To Get To You”) e per quello finale (“I’m A Thousand Miles From Home”, autentico capolavoro del disco) e Jimmie Dale Gilmore (titolare insieme allo stesso Ely ed a Butch Hancock della premiata ditta Flatlanders), che armonizzerà con la propria voce “I Saw It In You”.
Anche il restante terzo dei Flatlanders, Butch Hancock per l’appunto, dà il proprio contributo al disco firmando “She Finally Spoke Spanish To Me”, curiosa autoreferenziale risposta a quella  “She Never Spoke Spanish To Me”, da lui scritta e peraltro cantata dallo stesso Ely nel suo disco d’esordio del 1977.
Se il brano di Hancock è bello ma non memorabile, lo stesso non si può dire di “Gallo Del Cielo”, straordinaria canzone di disperazione e galli da combattimento uscita dalla penna di Tom Russell (era su Poor Man's Dream) che proprio in Letter To Laredo, grazie anche all’apporto vocale di Raul Malo, alla chitarra di Teye ed alla suggestiva fisarmonica di Ponty Bone, trova la sua versione definitiva.
Insieme a questi brani, per un motivo o per un altro maggiormente rappresentativi dello spirito del disco, scorre, con la lentezza del Rio Grande, una lunga sequela di piccoli gioielli acustici attraverso i quali Ely, dimostrando di avere assimilato alla perfezione la lezione di Cormac McCarthy (che Ely ringrazia pubblicamente nei credits), ci racconta, spesso con poche ma efficacissime immagini, le sue storie di confine.
Dall’incedere gitano di “Run Preciosa” al tex-mex di “Saint Valentine” e di “Ranches And Rivers”, dalla malinconica nostalgia di chi, per un motivo o per un altro, fugge dai propri luoghi e dai propri affetti (raccontata magistralmente nella title track ed in “I’m A Thousand Miles From Home”) al country più tradizionale di “I Ain’t Been Here Long”, ogni singola nota ed ogni singola parola in Letter To Laredo ci parlano di quella linea ideale (ma mica tanto, essendo percorsa per buona parte da un alto muro sorvegliato a vista) che non si limita a separare due popoli ma, anche e soprattutto, a cercare di tenerne lontano uno, decisamente più affamato dell’altro. Riguardo questo aspetto “politico” della forzata vicinanza tra Stati Uniti e Messico Ely decide di mantenere, in Letter To Laredo, un profilo decisamente basso. Nessuna denuncia, nessun racconto di attraversamenti notturni della linea di confine (altri lo hanno fatto o lo faranno, penso per esempio al Bruce Springsteen di “Across The Border” o di “Matamoros Banks”), ma ciò non significa che la disperazione e la fuga da una condizione di vita insostenibile siano stati lasciati fuori dalle canzoni di Letter To Laredo: basta mettere a fuoco in un punto indefinito posto appena qualche metro dietro le parole che compongono i testi. Perché dietro ogni uomo che fugge dalla legge per un crimine non commesso, dietro ogni uomo che si trova a miglia di distanza dalla propria casa nel tentativo di raggiungere una qualsivoglia terra promessa, dietro ogni uomo che ruba qualcosa (sia anche un gallo da combattimento con le ali rotte ed un occhio storto) per ricomprare la terra che era del proprio padre, dietro tutte queste persone non ci può che essere un’unica, immensa disperazione.

TOM RUSSELL – BORDERLAND


Il confine tra Stati Uniti e Messico è uno dei luoghi geografici più raccontati nell'ambito della cultura musicale americana ed il suo attraversamento, nell'uno o nell'altro senso, da sempre è metafora di catarsi e di libertà, di fuga dalla giustizia che ti insegue o dall'ingiustizia della vita, dalla fame che ti perseguita o dall'inutile ricerca di una fama che non ne vuole sapere di arrivare.
Per questo motivo sarebbe un errore considerare il confine raccontato da Tom Russell in Borderland  soltanto una banale, per quanto articolata, linea disegnata su una carta geografica. E' anche questo, ovviamente, ma c'è dell'altro: se il fiume - The River -  di Bruce Springsteen era metafora dello scorrere della vita, il confine di Tom Russell è metafora delle mille invisibili barriere contro le quali  andiamo quotidianamente a sbattere il muso, dei mille passaggi che un uomo è costretto ad attraversare o con i quali, comunque, deve inevitabilmente fare i conti e, infine, delle differenze tra uomo e donna.
“Now I'm thinking about my baby and the borderline 'tween a woman and a man” canta infatti Tom nell'iniziale Touch Of Evil, una ballata nella quale le chitarre acustiche di Andrew Hardin e di Gurf Morlix (che è anche produttore del disco) vengono impreziosite dall'accordion dell'immenso  Joel Guzman e dalle trombe mariachi di Oliver Steck. Il confine che separa un uomo da una donna, dunque. Nessun filo spinato a graffiarci, nessun alto muro da scavalcare, nessun fiume da attraversare, verrebbe da dire. Ed invece ci si graffia, si fatica, si annega ugualmente: “Oh, someone rolled the credits on, twenty years of love turned dark and raw. Not a technicolor love film, it's a brutal document, its film noir”.
Le molteplici letture a cui si presta il concetto di confine, come dicevo, rappresentano  il reale filo conduttore del disco, così in Down The Rio Grande, una dolente ballata scritta a quattro mani insieme a Dave Alvin, il confine fisico, quel Rio Grande che per buona parte segna la frontiera tra i due Stati, rappresenta la porta attraverso cui una Lei abbandona un Lui (“She always said she'd go someday, she never said how far. Down The Rio Grande...”), mentre in “Where The Dream Begins”, altra ballata acustica, è semplicemente il momento nel quale le delusioni della vita hanno preso il posto dei sogni fatti da bambino (“What happened to the kid in the baseball cap?  He's trying to get home but I think he's lost the map).
Ed ancora,  mentre in The Hills of Old Juarez, solida ballata elettrica che racconta la storia di un corriere di cocaina,  il confine che si intende raccontare è quello, spesso sottile, tra il bene ed il male, in When Sinatra Played Juarez viene posto l'accento sul malinconico ricordo dei tempi migliori di Juarez, con il concerto di Sinatra a fare da spartiacque tra quell'età dell'oro ed un grigio presente: “Those were truly golden years my Uncle Tommy said, but everything’s gone straight to Hell since Sinatra played Juarez”.
Se questi sono i brani più rappresentativi di una visione metaforica del confine, tutto il lavoro ne è comunque pregno. E' un mondo in chiaroscuro quello raccontato da Russell, una terra nella quale un treno può essere considerato un malinconico rumore, come in The Santa Fe At Midnight,  oppure il mezzo per fuggire da qualcosa (The Next Thing Smokin', bellissimo titolo), una terra di mezzo nella quale il sole può scottare e la neve uccidere (la bellissima California Snow, altro brano scritto insieme all'amico Dave Alvin).
Sul versante musicale Borderland è un disco eccezionalmente ispirato, composto da ballate nelle  quali le chitarre di Hardin, di Morlix e dello stesso Russell si intrecciano a formare un morbido tappeto su cui l'accordion di Guzman si posa struggente, da spoken songs che inaspettatamente sfociano, come nel caso di What Work Is, in potenti esplosioni e da ariosi brani elettrici puntellati dall'hammond di Ian McLagan, come in Let It Go e nella conclusiva The Road It Gives, The Road It Takes Away.
Un disco, in definitiva, assolutamente fondamentale per chiunque voglia capire il cosiddetto movimento Americana e per il quale, almeno per quanto mi riguarda, non è fuori luogo parlare di capolavoro. 
JP Den Tex
American Tune
[
Comme Les Chansons  2009
]



Ci sono dischi che ti incuriosiscono già dalla copertina, ed American Tune di JP Den Tex appartiene di diritto a questa categoria. La fotografia in bianco e nero di un viso segnato da quelle che oggi, con un eccesso di buonismo, vengono definite "rughe d'espressione". Null'altro, ma è già sufficiente a farci domandare chi sia questo tizio dal viso vissuto e dal sorriso sornione. Se poi, benedetto San Google, si scopre che il tizio in questione, pur muovendosi all'interno del movimento Americana, è nativo di Amsterdam, la curiosità non può che aumentare. American Tune, seguito del precedente Bad French edito nel 2007, racconta la storia di uno scrittore europeo che, trasferitosi momentaneamente a New York con l'intento di raccogliere materiale per un nuovo libro, si interroga sull'essenza del "Sogno Americano" e su quanto ancora sia presente nella cultura americana e, nella speranza di trovare risposta alle proprie domande, parte alla volta di San Francisco. Al termine del proprio pellegrinare lo scrittore, alter ego di JP, non troverà le risposte che cercava ma, inaspettatamente, la chiave per meglio comprendere la propria solitudine esistenziale.

L'esordio del disco, The Dreamer, è ottimo. Sostenuto da un'efficace, anche se già sentita, linea di basso ed impreziosito da una slide che mette subito in chiaro quale sia la direzione geografica cui guarda la musica del nostro, il brano entra immediatamente in circolo ed è un ottimo biglietto da visita. Se il primo brano colpisce immediatamente, il resto del disco cresce piuttosto lentamente (non che sia un difetto), e se qualche soluzione sonora in un primo momento non convince del tutto, successivi e più attenti ascolti dimostrano che, al contrario, è funzionale all'economia del lavoro. Mi riferisco in particolare ai cori maschili di When I'm Down, di Bowbow e di Vagabond Heart, al David Bowie anni '80 che pare fare capolino tra le pieghe del ritornello di Down & Out In Phoenix e ad un arrangiamento forse un po' troppo caramelloso in Timeless. Il meglio di sé, comunque, JP Den Tex lo dà quando, tirando una linea retta che attraversa l'oceano, riesce a trovare un adeguato equilibrio tra le proprio radici europee ed un'evidente voglia di America. Significative in tal senso sono Mon Désir Noir e Un Amor Fou à San Francisco, brani nei quali un accorto uso della lingua francese dimostra quale sia la parte di Vecchio Continente che musicalmente intriga maggiormente il nostro "americanolandese", sensazione peraltro confermata dall'utilizzo di una fisarmonica dall'inconfondibile sapore parigino in Love So Helpless.

Se il disco, durante il suo sviluppo, riesce a fondere ed a fare convivere vecchio e nuovo continente, l'ultimo brano del disco ribadisce con forza che i miti musicali del nostro si trovano decisamente oltreoceano. Il compito di chiudere il disco (ed il cerchio) è infatti delegato ad una più che dignitosa versione cajun di We'll Sweep Out The Ashes, con il nostro a fare le veci del mai troppo compianto Gram Parsons ed una oscura (almeno per noi) cantante olandese, tale Vera Van Der Peel, a fare le veci di Emmylou Harris. Nomi, va da se, talmente ingombranti da rendere impossibile ogni paragone, che infatti non farò. Ma nomi che la dicono tutta sull'amore che JP Den Tex nutre nei confronti della "nostra" musica.
(Silvano Terranova)
Sandy Denny
" Who Knows Where The Time Goes"
L'ultimo scorcio del 2008 ha visto un'altra perla aggiungersi a quella splendente collana che è la discografia, da solista o nell'ambito di più ampi progetti, di Sandy Denny. Il secondo capitolo dell'avventura Fotheringay, questa la perla in oggetto, ci fornisce l'occasione per riascoltare la cristallina voce della sfortunata cantante inglese e per parlare di quanto sia stata importante la sua figura nell'ambito del movimento folk rock inglese.
a cura di Silvano Terranova
:: Il ritratto
La fotografia scelta per la copertina dell'edizione inglese di Unhalfbricking, terzo disco dei Fairport Convention, trasmette all'osservatore un raro senso di pace. Una coppia di anziani, il cui aspetto suscita quel misto di tenerezza e rispetto dovuto alle persone che hanno già percorso buona parte del proprio cammino, sosta in piedi davanti al cancello di un giardino. All'interno del giardino, leggermente defilato, un gruppo di giovani persone sembra intento a chiacchierare, ed in lontananza, immerso in una nebbiolina lattescente, si staglia maestoso il profilo di una chiesa. Ci troviamo a Wimbledon, periferia di Londra. Le due amabili figure sono Neil e Edna, genitori di Sandy Denny, voce femminile del gruppo, il giardino è quello di casa Denny in Arthur Road, la chiesa che si vede sullo sfondo è la St Mary's Church. La fotografia sul retro del disco, sebbene meno poetica, contribuisce a rafforzare quel senso di tranquillità: i membri del gruppo, seduti attorno ad un tavolo, sono intenti a consumare un semplice pasto. Queste due fotografie, a dispetto del senso di pace che trasmettono, sono però (più o meno invisibilmente) legate a due tragedie, immagini speculari di quella apparente tranquillità e dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che spesso il destino si diverte alle nostre spalle. La prima tragedia che queste immagini riportano alla memoria è quella dell'incidente nel quale, il 12 maggio 1969 (appena 2 mesi prima dell'uscita del disco), persero la vita il batterista Martin Lamble e Jeannie Franklyn, fidanzata di Richard Thompson, e nel quale gli altri membri della band, di ritorno da un concerto a Birmingham, rimasero seriamente feriti. Nel momento del terribile incidente Ashley Hutchings, è lui a ricordarlo in un'intervista, indossava la stessa camicia e lo stesso gilet che gli si vedono indosso nella fotografia che ritrae il gruppo intorno al tavolo. "Ricordo chiaramente questi indumenti insanguinati. Non si possono dimenticare cose come queste.", dirà nella stessa intervista.

L'altra fotografia, sebbene non direttamente legata a nessun tragico avvenimento, ci riporta però agli avvenimenti che, 9 anni dopo, avrebbero condotto Sandy ad una prematura scomparsa. Non possiamo dimenticare infatti che quella stessa Edna Denny, prigioniera della paura dei giudizi che la gente avrebbe potuto dare su quella figlia stravagante e bislacca, giocò inconsapevolmente ma - ahimé tragicamente - un ruolo nella morte della cantante. Fu lei che si oppose fermamente all'idea di un controllo medico per la figlia che, cadendo dalle scale della loro casa in Cornovaglia in un momento di ubriachezza, si era procurata una vistosa ferita alla testa. Molto semplicemente non voleva si sapesse in giro che la figlia aveva dei problemi con l'alcool. Qualche settimana dopo la cantante, che per giorni aveva sofferto di terribili mal di testa, venne trovata riversa per terra in uno stato di incoscienza. Il 21 aprile 1978, dopo 4 giorni di coma causato da una emorragia celebrale, la cantante si sarebbe spenta. Aveva appena trentuno anni, alle spalle una manciata di splendidi dischi ed una vita privata resa complicata da un tormentato rapporto con il marito Trevor Lucas e da insicurezze e fobie varie, non ultima quella da palcoscenico.


Alexandra Elene McLean Denny, per tutti semplicemente Sandy, muove i primi passi nel mondo della musica inglese appena diciannovenne prestando la propria voce per una serie di sessions radiofoniche per la BBC e per dischi di altri artisti ed in seguito, a venti anni, diventa la voce degli Strawbs, partecipando alla registrazione del loro All Our Own Work. Ma è nel 1968 che la ventunenne Sandy, diventando la voce femminile dei
Fairport Convention, dà una decisa virata alla propria carriera e, in definitiva, al suono degli stessi Fairport Covention e di tutto il movimento folk rock inglese. I dischi del gruppo inglese ai quali Sandy presterà la propria cristallina voce ed una straordinaria capacità compositiva saranno 5: i primi 3 tra il 1968 ed il 1969 ed i restanti 2 nel 1974, quando la cantante tenterà l'illusoria via di una reunion dagli opachi risultati. Nel periodo di tempo che intercorre tra la prima e la seconda esperienza con i Fairport Convention la cantante tenterà dapprima la via di un proprio gruppo, i Fotheringay e, in seguito, una carriera solista che la vedrà dare alle stampe 3 dei 4 dischi a lei intestati. Abbandonati definitivamente i Fairport Convention, per la cantante ci sarà tempo soltanto per un altro disco da solista (il quarto ed ultimo), ennesimo sintomo di quel tormento interiore che accompagnò la sua intera esistenza e che, in ambito professionale, significò una continua - e purtroppo vana - ricerca della propria condizione ideale. Il resto della storia, sfortunatamente, lo conosciamo già.
:: Il capolavoro
Sandy
[Island 1972]

1 It'll Take a Long Time // 2 Sweet Rosemary // 3 For Nobody to Hear // 4 Tomorrow Is a Long Time // 5 The Quiet Joys of Brotherhood // 6 Listen, Listen // 7 The Lady // 8 Bushes and Briars // 9 It Suits Me Wel // 10 The Music Weaver
I mattoni con i quali sono costruite le canzoni di Sandy, splendido ed imprescindibile secondo lavoro solista della cantante, sono soltanto in parte gli stessi che formano la solida ossatura degli episodi più felici della collaborazione Sandy Denny-Fairport Convention: il folk senza tempo di It Suits Me Well e di Quiet Joys Of Brotherhood o la presenza della cover di un brano di Dylan (Tomorrow Is a Long Time), giusto per citarne un paio. Ma anche quando l'urgenza comunicativa di Sandy tracima dagli argini rassicuranti del folk inglese, tradizionale o venato di rock che sia, per andare ad abbracciare sonorità più smaccatamente pop, gli arrangiamenti si mantengono entro i confini di un'elegante dignità, lontano dagli appesantimenti che si possono notare in altri capitoli della discografia della nostra. Prendete, per esempio, l'iniziale It'll Take A Long Time, un'ariosa ballata che si colloca di diritto tra le cose più belle scritte dalla Denny e nella quale una tastiera - probabilmente un moog - accompagna la voce per buona parte della canzone: pur essendo un po' lontana dagli stilemi tipici dei Fairport Convention, potrebbe benissimo appartenerne al repertorio, al punto che una toccante versione live, incisa nel corso del tour che li vide riunire nel 1974, è presente tra le bonus tracks aggiunte alla ristampa del 2005. Oppure provate ad immaginare un brano in cui convivono mandolini ed archi: il risultato, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe essere l'apoteosi del kitsch, ma non nel caso della delicata Listen, Listen, altro autentico masterpiece del disco. Il folk tradizionale, come già detto, trova spazio nella sognante Quiet Joys Of Brotherhood, testo di Richard Farina su note tratte dalla tradizionale aria irlandese My Lagan Love, nota ai più perché incisa dall'accoppiata di razza Van Morrison - Chieftains nello splendido Irish Heartbeat. Questo brano, più di altri, rappresenta il vero trait d'union tra la nuova carriera solista di Sandy e la sua passata avventura con i Fairport Convention, ed infatti non è un caso che questo brano, come testimonia il suo inserimento come bonus track nell'expanded edition del 2002 di "Liege & Lief", fosse già stato inciso dalla band. Oltre ai succitati brani almeno altri due meritano di essere ricordati: la delicata, seppur appesantita da una spessa coltre di archi, The Lady e la superba The Music Weaver, brano forse dedicato all'amico Richard Thompson ed al quale spetta il compito di far calare il sipario su un disco che, nel suo genere, resta un piccolo capolavoro di grazia compositiva ed interpretativa.
:: Dischi essenziali
Unhalfbricking (Fairport Convention)
[Island 1969]



Oggi che il gelido e capiente dischetto argentato ha preso il posto del nero vinile, che poteva a malapena contenere 45 minuti di musica, l'abbondanza non fa certo più notizia e ritrovarsi tra le mani un disco di quasi ottanta minuti o un doppio da 2 ore è considerato normale, ma così non era nel 1969. Può sorprendere quindi che i tre dischi editi dai Fairport Convention quell'anno (What We Did on Our Holidays, Unhalfbricking e Liege & Lief) messi insieme facciano la bellezza di centodiciotto minuti e cinquantadue secondi, che tradotto in soldoni fanno quasi 2 ore di musica. Ma diciamola tutta: ad impressionare non è tanto la quantità ma anche, e soprattutto, la qualità. Prendiamo ad esempio Unhalfbricking, un disco che meriterebbe un posto nella storia della musica non fosse altro per il curioso titolo: nei suoi 40 minuti scarsi si ha la netta impressione che niente vada sprecato. Non hanno bisogno di ricorrere a furbi stratagemmi o a squallidi riempitivi i Fairport Convention del 1969: la loro vena creativa è ai massimi livelli, la voglia di suonare insieme e di sperimentare infinita. Sebbene la perfetta simbiosi tra folk e rock trovi il suo punto più alto nel seguente Liege & Lief, in Unhalfbricking non mancano certo momenti di pura magia. Gli undici minuti del traditional A Sailor's Life che profumano tanto di psichedelia o la curiosa versione cajun (non a caso cantata in francese) di If You Gotta Go, Go Now di Bob Dylan, diventata per l'occasione Si Tu Dois Partir, per esempio. Dal canto suo Sandy non si limita ad interpretare magistralmente le canzoni, ma contribuisce a fare di Unhalfbricking un piccolo capolavoro di grazia regalando al gruppo, ed in definitiva a tutti noi, due splendidi pezzi, Autopsy e, soprattutto, Who Knows Where The Time Goes, vera e propria signature song della cantante. Unhalfbricking esce nel luglio del 1969: soltanto 14 mesi sono passati da quando Sandy è diventata la voce femminile dei Fairport Convention. In questi mesi lei ed il gruppo sono cresciuti a dismisura. Adesso sono pronti per il capolavoro.



Liege & Lief (Fairport Convention)
[Island, 1969]


Liege & Lief, da molti indicato come uno dei più importanti dischi folk di tutti i tempi, è il terzo lavoro dei Fairport Convention al quale Sandy presta la voce. Concepito nella quiete della campagna dell'Hampshire, dove i membri del gruppo stavano curando le ferite, non solo fisiche, causate dal terribile schianto automobilistico avvenuto pochi mesi prima, Liege & Lief è innanzitutto una sorta di piccola enciclopedia delle musica folk inglese. Abbandonate del tutto le personali riletture dell'amato Dylan (quattro cover nei due precedenti dischi), più che i brani originali (tre, dei quali uno a firma della stessa Sandy), sono infatti i traditional a farla da padrone: dal ricco patrimonio della tradizione albionica i Fairport Convention tirano fuori sette autentici gioielli (4 brani ed un medley di 3 strumentali) che, vestiti di nuovi suoni, vengono consegnati ad un mondo che poco o nulla li conosceva. Questi brani, la cui esistenza in vita si doveva (e si deve tuttora) all'instancabile opera di raccolta e catalogazione di Cecil Sharp e della sua "English Folk Dance and Song Society", sono storie che parlano di disertori (The Deserter), di pericolosi incontri tra donne e banditi (Reynardine), di tradimenti ed omicidi d'onore (Matty Groves), di nobildonne che con la forza del loro amore riescono a sciogliere terribili incantesimi (Tam Lin). L'universalità di queste storie è innegabile: sono storie che possiamo facilmente ritrovare, più o meno simili, in decine di altre culture. Mai nessuno però, non in Inghilterra per lo meno, era riuscito nell'intento di cucire, attorno a storie così antiche, un abito così moderno e (non è un controsenso) assolutamente senza tempo, una tavolozza di suoni nella quale accanto al violino ed alla chitarra, trama ed ordito nel tradizionale tessuto della folk-song inglese, convivono con naturalezza chitarre elettriche, pulsanti bassi e batterie che sovente tracciano inconsueti ritmi. E su questo abito, multicolore ma non per questo inelegante, si posa, preziosa, la seta della voce della Denny.



Fotheringay (Fotheringay)
[Island, 1970]
  

Abbandonati i Fairport Convention Sandy, insieme al futuro marito Trevor Lucas, al chitarrista Jerry Donahue, al batterista Gerry Conway ed al bassista Pat Donaldson, pone le basi per un nuovo progetto musicale che avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, rappresentare al meglio il suo lato più strettamente cantautorale. Il nome del gruppo, Fotheringay, viene preso in prestito dalla canzone, da lei scritta, che apriva il lato A di "What We Did on Our Holidays", primo disco dei Fairport Convention con Sandy alla voce. L'opinione comune è che, scegliendo questo nome, la cantante intendesse gettare un ideale ponte tra il vecchio ed il nuovo gruppo, ma volendo fare della facile dietrologia si potrebbe anche pensare che, al contrario, tale scelta volesse significare un iniziare daccapo. Quali che fossero le intenzioni della cantante, la realtà ci dice che Fotheringay (che sarebbe rimasto l'unico disco pubblicato dal gruppo fino al 2008, anno in cui vedrà la luce l'inedito e postumo Fotheringay 2) è un disco i cui brani, pur pagando un pesante debito nei confronti degli intrecci folk-rock tanto cari ai Fairport (come ad esempio in The Sea, in Winter Winds ed in The Way I Feel, cover di un brano di Gordon Lightfoot), tendono ad esplorare nuovi territori rock, anche di matrice americana. The Ballad Of Ned Kelly, per dirne una, sembra uscita da un disco della Band, e la cosa non dovrebbe sorprendere più di tanto se si pensa che l'amore per Dylan è sempre presente, tanto che anche in questo disco si conferma la presenza di una cover dello stesso, Too Much of Nothing. Anche stavolta un posto speciale è riservato da Sandy alla musica tradizionale anglosassone, ed il brano scelto per l'occasione, la struggente Banks Of The Nile, è una delle vette assolute del disco. Agli otto minuti del brano è affidato il compito di chiudere magistralmente un album che avrebbe dovuto rappresentare per Sandy un nuovo inizio e che invece restò semplicemente un episodio nella tumultuosa vicenda artistica della cantante. Sebbene l'esperienza con i Fotheringay venga giustamente ricordata oggi come uno dei momenti più felici della carriera della Denny e l'omonimo disco come uno dei punti più alti dell'intera discografia post Fairport Convention della stessa, il gruppo ebbe vita breve. All'inquieta Sandy, infatti, non bastò l'elezione a migliore cantante inglese nell'annuale sondaggio della rivista Melody Maker: l'essere semplicemente la voce solista di un gruppo (anche se viene naturale aggiungere "e che gruppo!!!") iniziava ad essere riduttivo per lei e, spinta anche dal suo manager Joe Boyd, all'alba del 1971 sciolse i Fotheringay. Una nuova fase, l'ennesima, stava per iniziare per Sandy. 



The North Star Grassman And The Ravens
[Island, 1971]


La suggestiva copertina di The North Star Grassman and The Ravens, primo disco intestato esclusivamente a Sandy Denny, ci mostra la cantante che, all'interno di un'antica farmacia, dosa e mescola erbe medicinali, e la cosa non è casuale. Proprio come un'esperta farmacista, infatti, Sandy riesce in questo disco a dosare magistralmente gli elementi a propria disposizione ed a mescolarli con sapienza fino ad ottenere un prodotto che, alla fine, è molto più della somma dei singoli elementi: una medicina, per l'appunto. Medicina per le orecchie e per l'anima. Che poi la medicina servisse non soltanto all'occasionale ascoltatore ma anche - e soprattutto - a Sandy stessa ed al suo inquieto animo, questo è un altro paio di maniche che non sminuisce il valore di questo splendido album, anzi direi che ne rappresenta un valore aggiunto. The North Star Grassman and the Ravens è, tra i dischi di Sandy, quello che maggiormente ne rappresenta il lato più ombroso ed autunnale, tanto nel versante delle musiche, non ancora contaminate da tentazioni mainstream, quanto in quello dei testi, mai così malinconici, introversi e sovente indecifrabili, Parole scritte di getto, quasi che improvvisamente la cantante avesse trovato la strada nascosta - e più breve - che dal cuore porta alla mano senza passare per la tappa intermedia del cervello. Una sorta di resoconto stenografico dell'anima, insomma. Circondata da musicisti che con lei avevano condiviso le precedenti esperienze Fotheringay e Fairport Convention, tra i quali Richard Thompson, Jerry Donahue, Pat Donaldson, Gerry Convay e Trevor Lucas, Sandy realizza così il suo disco più diretto e spontaneo, mettendo in fila una serie di superbe canzoni firmate da lei, Late November, John The Gun e Next Time Around su tutte. Tra i brani non scritti dalla stessa Sandy spiccano una commovente riproposizione del traditional Blackwaterside, una personalissima rilettura di Let's Jump the Broomstick (brano portato al successo da Brenda Lee una decina di anni prima) e, inutile dirlo, la cover di un brano di Dylan, nella fattispecie Down In The Flood. In definitiva The North Star Grassman and the Ravens è un disco che non dovrebbe mancare nella discografia di chiunque voglia realmente capire l'artista Sandy Denny perché, sebbene nel complesso raggiunga solo in parte le vette di eccellenza che avrebbero trovato spazio tra i solchi del seguente disco, rimane il suo lavoro più intimamente sincero e meno imbastardito da limitativi compromessi.
:: Il resto
Le prime acerbe registrazioni di Sandy per la Saga Records, originariamente inserite negli album Alex Campbell & His Friends (di Alex Cambell) e Sandy and Johnny (di Johnny Silvo), sono state nel 2005 integralmente raggruppate dalla Castle Records nell'antologico Where The Time Goes - The Early Years, ma non sono imprescindibili, così come tralasciabile è anche l'ascolto di All Our Own Work degli Strawbs, sebbene il disco contenga la prima versione di Who Knows Where The Time Goes.
Di ben altro spessore è invece il primo disco con i Fairport Convention, What We Did On Our Holidays (Island 1969), un lavoro in realtà non molto inferiore ai due ottimi album seguenti e nel quale, accanto a brani diventati dei veri e propri classici della band (la già citata Fotheringay e la thompsoniana Meet On The Leedge su tutti), convivono brani per certi versi "minori", ma assolutamente di pregio, come il blues di Mr. Lacey, la delicata Book Song e la cover del solito Dylan, qui rappresentato dalla splendida I'll Kep It With Mine, brano che appena due anni prima era stato tirato fuori dai cassetti di casa Zimmerman da Nico per il suo album Chelsea Girl. Trascurabili, al contrario, gli altri due dischi registrati nel corso della reunion con i Fairport (Live Convention del 1974 e Rising for the moon del 1975), anche perché dell'originaria formazione della band era rimasto soltanto Simon Nicol. 

Like An Old Fashioned Waltz (Island 1973), terzo lavoro solista della cantante, è un disco che, a fronte di una produzione non sempre all'altezza e troppo spesso ridondante, ci presenta una manciata di buone, e a volte persino ottime, canzoni. Solo e Like An Old Fashioned Waltz, i due brani che aprono il disco, appartengono di diritto a quest'ultima categoria, ulteriore conferma del fatto che Sandy Denny non era semplicemente una superba voce ma anche un'autrice attenta ed ispirata, capace di tirare fuori dalla propria penna almeno un paio di capolavori a disco e di riuscire, in ogni caso, a mantenere alta la qualità media dei propri pezzi. Friends, Carnival, At The End Of The Day e No End, seppure troppo spesso immersi in un mare di archi della cui reale necessità è lecito dubitare, non fanno che confermare l'alta qualità della scrittura della nostra, mentre Dark The Night è, per qualità intrinseca del brano e per l'arrangiamento inutilmente pretenzioso, il punto più basso dell'intero disco. "Buona l'intenzione, pessima la realizzazione" dicono spesso i nostri telecronisti sportivi nel commentare un tiro che finisce in curva invece che in rete. In questo caso il risultato non è certamente pessimo ma, con una produzione un pelino più misurata, Like An Old Fashioned Waltz sarebbe stato un gol da cineteca.

Rendezvous (Island 1977), ultimo lavoro della cantante, è il capitolo meno convincente dell'intera discografia della stessa. Non che manchino le grandi canzoni, intendiamoci: I Whish I Was A Fool For You, Take Me Away e I'm A Dreamer trovano spazio sicuramente tra le cose migliori scritte dalla nostra, e da sole valgono il prezzo del biglietto. A differenza del precedente Like An Old Fashioned Waltz, che manteneva una certa eterogeneità d'intenti, Rendezvous ha però il difetto di presentare all'ascoltatore un menù composto da portate eccessivamente elaborate e, soprattutto, distanti per gusto e per ingredienti le une dalle altre. Nei suoi 40 minuti di durata Rendezvous mette in fila, accanto ai succitati episodi che ne rappresentano il lato più interessante, brani che gridano vendetta per quanto sbagliato e fuori luogo sia l'arrangiamento (Gold Dust e Silver Threads and Golden Needles), composizioni, per restare in tema culinario, dal sapore poco deciso (One Way Donkey Ride), brani dal taglio cinematografico e dall'arrangiamento barocco (All Our Days) e, soprattutto, un'appesantita riproposizione di Candle In The Wind, simbolica sovrapposizione di due distinte, ma a loro modo identiche, infelicità: Sandy come Marilyn. Specchio del momento che la cantante stava vivendo, fatto di continui litigi con il marito e di una maternità non si sa quanto realmente desiderata, Rendezvous è, paradossalmente, il lavoro che meglio ci fa comprendere la persona Sandy Denny. Anche se, inutile dirlo, l'artista è meglio cercarla da qualche altra parte.
Ogni grande artista prematuramente scomparso lascia inevitabilmente una coda di inediti e pubblicazioni postume, e Sandy Denny non sfugge alla regola. A tal riguardo le cose migliori sono lo stupefacente box del 2007 Live At The BBC, acquisto obbligato per chiunque voglia approfondire l'artista e le sue canzoni, lo splendido cofanetto A Boxful Of Treasures (5 cd che coprono, attraverso brani ufficiali ed inediti, tutta la vita artistica della nostra), Gold Dust - Live At The Royalty, che è la registrazione integrale dell'ultimo concerto della cantante e Fotheringay 2, uscito nel 2008, che porta alla luce quello che sarebbe dovuto essere il secondo capitolo della band e che, sebbene povero di reali novità, è un'istantanea che fotografa Sandy nel suo periodo migliore.
Sandy godeva di grande rispetto da parte dei colleghi, come testimoniato dalle importanti proposte di collaborazione ricevute nel corso della sua breve ma intensa carriera da prestigiosi artisti, e su tutte queste collaborazioni spicca il duetto con Robert Plant in The Battle Of Evermore, noto brano dei Led Zeppelin inserito nel loro quarto album. Paradossalmente è il brano cantato da Sandy più conosciuto dall'ascoltatore medio, quello che da quasi quaranta anni permette alla sua cristallina voce di entrare in migliaia di case e di raggiungere milioni di distratti ascoltatori, che poco o nulla conoscono dell'avventura artistica ed umana di una delle più grandi (se non la più grande in assoluto) cantanti folk inglesi.
:: Riepilogo (discografia)

Sandy Denny
The North Star Grassman and The Ravens (Island 1971) 8.5
Sandy (Island 1972) 10
Like An Old Fashioned Waltz (Island 1973) 7.5
Rendezvous (Island 1977) 6.5
Gold Dust: Live at the Royalty (Island 1998) 7.5
Live at the BBC (Universal 2007) 9
Fairport Convention
What We Did On Our Holidays (Island 1969) 9
Unhalfbricking (Island 1969) 10
Liege & Lief (Island 1969) 10
Live Convention (Island 1974) 6
Rising for the Moon (Island 1975) 6
Fotheringay
Fotheringay (Island 1970) 9.5
2 (Fledg'ling 2008) 7.5
Orchestra del Rumore Ordinato
Mestierante
[Odro  2009]


La scena della canzone d'autore toscana, come dimostrano le convincenti prove discografiche di Massimiliano Larocca, sta indubbiamente vivendo un felice momento, e l'esordio su cd dell'Orchestra del Rumore Ordinato, band fiorentina che con lo stesso Larocca ha sovente condiviso il palco in funzione di supporto, non fa che confermare ciò. I membri dell'Orchestra (Michele Scerra, Mike Ballini, Angelo Crocamo ed Andrea Brogi), pur essendo musicisti di lunga esperienza, suonano insieme da un tempo relativamente breve, eppure hanno le idee perfettamente chiare su quale sia il "manifesto programmatico" che deve guidare il loro progetto musicale: ordinare i rumori per farli diventare melodia. Rumori, ben inteso, che all'interno dei brani non sono mai invasivi e comunque sempre funzionali al testo. "Mestierante è un disco domestico", scrive nelle brevi note inviate alla redazione insieme al cd Michele Scerra, autore di buona parte dei brani, "registrato in garage per rispettare l'unico cliché del rock'n'roll che ci sta a cuore, quello della purezza".

Questa scelta, sebbene porti con se un inevitabile bagaglio di piccole imperfezioni tecniche, si traduce in un'immediatezza ed in una freschezza lontane mille miglia dai suoni di plastica del nostrano pop da alta classifica. L'esordio del disco è semplicemente da urlo: Diciott'ore Sul Divano è un piccolo capolavoro minimalista impreziosito dai ricami chitarristici di Mike Ballini, una spoken song (o qualcosa di molto simile) che riesce a trattare un argomento trito e ritrito, quello della fine di una storia d'amore, con delicatezza ed originalità. "Diciott'ore sul divano, in silenzio senza un piano": raramente, in un paese che ha fatto degli amori finiti l'argomento principe della propria cultura canzonettistica, una frase è riuscita a racchiudere, con tagliente lucidità ed una notevole capacità di sintesi, il senso di vuoto che la fine di una storia porta con sé. Se Diciott'ore Sul Divano si eleva almeno un paio di spanne sopra buona parte della produzione nostrana, tutto il disco si mantiene, pur con i difetti di un'opera prima autoprodotta, entro buoni, quando non ottimi, livelli.

Quello che colpisce in Mestierante è sopratutto la variegata ricchezza musicale: tra i suoi solchi trovano spazio le sonorità blues fortemente odorose di zolfo di Animali Solitari e lo swing dal sapore sudamericano di Sudati l'America, il folk leggermente spruzzato di jazz di Preferisco l'Inverno ed il tex-mex di Non Riesco a Dirti Addio o di Sporchi Cattivi e Serpenti, gli accenni jazz di Gente autosufficiente, lucido ritratto di un'Italia nella quale "niente potrà cambiare tanto c'è sempre quello là" e nella quale "vige la legge del menga, chi l'ha in culo se lo tenga" e l'ariosità di ballate come L'ultima Volta, nella quale un felice utilizzo di dobro e slide dimostra ancora una volta come le coordinate musicali del gruppo, sebbene fortemente ancorate in Italia, guardino decisamente oltre oceano. Un ottimo esordio ed una ventata di ottimismo per la musica made in Italy, insomma. Bravi.
(Silvano Terranova)
Truckstop Souvenir
Under a Big Blue Sky
(Truckstop Souvenir 2009)

Il consiglio che su queste stesse pagine chiudeva la recensione di Leave Nothing Behind, cd d'esordio dei Truckstop Souvenir, quello cioè di riprovarci con un supporto strumentale più consistente, evidentemente non deve essere stato seguito. Under a Big Blue Sky, seconda prova discografica del duo, si muove infatti sulla falsariga del precedente lavoro, presentando più o meno immutate le stesse sonorità e lo stesso scarno tappeto strumentale basato sulla chitarra di Dennis James e sul violino di Lauryn Shapter. Sebbene il lavoro strumentale dei due venga arricchito a volte da un pianoforte, un contrabasso, un banjo, una viola, un violoncello e, addirittura, da un quartetto d'archi nella conclusiva Rodeo, pochi sono i sussulti che i brani del disco (undici, più una breve ghost track strumentale), immersi in una rilassata e rilassante miscela di country tradizionale e folk, riescono a dare all'ascoltatore. Unica piacevolissima eccezione For The Coal, brano dedicato a Maria Gunnoe, una donna che negli Appalachi combatte la propria battaglia contro una pratica che dagli anni Settanta si effettua da quelle parti: la rimozione, a colpi di esplosivo, delle cime delle montagne al fine di facilitare l'estrazione del carbone. La denuncia cantata con passione in questo brano vale, da sola, il prezzo del biglietto. Il resto, lo confesso, è di difficile assimilazione.
(Silvano Terranova)
 
Elizabeth Lee
An Eclection - Songs from the Kitchen to the Attic
[
Elizabeth Lee 2009
]



An Eclection (sottotitolo: Songs from the kitchen to the attic) nasce dall'incontro di Elizabeth Lee, bella texana con l'amore per il blues nel sangue ed un'evidente voglia di sperimentazione nella mente, con Lorenzo Bertocchini, uno dei più interessanti artisti tra quanti, in Italia, fanno rock guardando agli States come principale fonte di ispirazione, qui in veste di autore. Le premesse per un buon disco, quindi, c'erano tutte: da una parte l'abilità di Bertocchini nel comporre canzoni nelle quali l'amore per il rock di matrice americana, Bruce Springsteen ed Elliott Murphy su tutti, si mescola efficacemente con influenze folk, country e persino reggae, e dall'altra la capacità della Lee di sperimentare nuovi percorsi nell'ambito del blues americano.
Le aspettative, purtroppo, vengono in parte deluse, e se il brano iniziale del disco, One Thing (Left To Do), è un solido blues acustico che, pur nella sua semplicità e nella sua assoluta fedeltà alla tradizione, si lascia ascoltare con piacere, il secondo brano, Always On My Mind, ci fa credere che un folletto dispettoso abbia cambiato il cd nel lettore, sostituendo quello di blues che stavamo ascoltando con un altro preso a caso dallo scaffale "easy listening più melenso". Drum machine, sintetizzatori, voci vellutate, una chitarra che sa tanto di George Benson: se questa è la nuova via del blues preferisco ascoltare Robert Johnson a vita. Il brano seguente, And We Drove, riporta il disco in sentieri meno indigesti per il sottoscritto: una rock song dai suoni forse un po' troppo levigati ma impreziosita da un felice ritornello che resta a lungo in mente, ed ancora meglio riesce a fare Nightwalks And Dreams, un brano che sembra uscito dalla penna di Elliott Murphy e che avevamo già sentito, cantato dall'autore e dai suoi Apple Pirates, in una compilation dedicata ad artisti varesini. Take Me With You, una morbida ballata cui avrebbe giovato, a mio parere, un arrangiamento meno patinato, riporta il disco in ambiti più leggeri, sensazione che viene confermata dall'ascolto della poppeggiante I'll Try To Be Myself, il brano meno convincente dell'intero lavoro per qualità, strumentazione ed arrangiamento.
Fortunatamente non tutto il lavoro si muove in ambiti mainstream, e l'ascolto dei restanti brani contribuisce a riportare il disco a livelli dignitosi (la mossa Rain In Rome, la pianistica Payphones ed il duetto con lo stesso Bertocchini Being A Woman, Being A Man) e persino a piazzare un paio di ottimi colpi (Won't Be There, che ha il vigore della migliore Lucinda Williams, e la conclusiva Big Blue Ocean, sghemba filastrocca per voce, harmonium e flauto). E' lecito domandarsi se questo stare in bilico tra blues/rock più tradizionale e tentazioni pop sia una precisa scelta stilistica o sia, più semplicemente, figlia dell'incertezza di un'artista che non ha ancora deciso quale sia la propria strada ma, in ogni caso, An Eclection è un disco che, mancando di una propria personalità, non riesce a soddisfare pienamente né chi è legato ad una visione intransigente della musica "americana" né chi, al contrario, ama i suoni di plastica di un certo pop da classifica.
(Silvano Terranova)